Tromboembolismo venoso e arterioso: complicazioni nelle infezioni acute

Conoscere il rischio di tromboembolismo nel paziente e agire presto

Il problema del tromboembolismo

Il tromboembolismo venoso (TEV) è la terza diagnosi cardiovascolare più comune, con un tasso di incidenza di 1 su 1000 all’anno nei cinquantenni e dell’1% all’anno nei nonagenari. Circa il 50% di tutti gli eventi di tromboembolismo venoso si verifica a causa di un ricovero ospedaliero, sia per intervento chirurgico che per malattia medica acuta.

Sappiamo bene come la TEV ospedaliera sia da considerarsi prevenibile utilizzando terapie che includono l’uso di anticoagulanti e misure meccaniche come le calze compressive e la compressione pneumatica intermittente. I pazienti non ospedalizzati che sono a maggior rischio di TEV includono i pazienti residenti in assistenza a lungo termine, le persone fragili, in particolare quelli con fattori di rischio di TEV preesistenti quali difetti coagulativi genetici. La presenza di una malattia medica che porta al ricovero ospedaliero comporta un rischio 8 volte superiore di sviluppare un tromboembolismo.

Infatti, sappiamo bene come vi sia durante la sepsi l’attivazione della coagulazione e dell’infiammazione che rappresentano reazioni essenziali per la difesa dell’ospite durante la sepsi. Engelmann e Massberg hanno introdotto il concetto di “immunotrombosi”, riferendosi alla stretta interazione tra coagulazione e immunità innata. Nella sepsi, l’attivazione del sistema di coagulazione è comune e può portare nelle situazioni più estreme ad una coagulazione intravascolare disseminata (DIC), condizione patologica che può comportare la disfunzione d’organo e/o emorragia, mettendo a rischio la vita del paziente.

Nei dati espressi dalla letteratura appare una valutazione accurata dell’incidenza di malattie tromboemboliche venose clinicamente evidenti (vale a dire, embolia polmonare e trombosi venosa profonda-TVP) nei pazienti medici ospedalizzati, ma le ricerche spesso sono state ostacolate da vari fattori tra cui l’eterogenecità di dati relativi ai pazienti arruolati negli studi, provenienti da gruppi misti di pazienti chirurgici e medici, sia sintomatici che asintomatici, nonché il mutamento di abitudini durante il ricovero ospedaliero e la tendenza a ridurre al massimo la durata della degenza ospedaliera.

È stato comunque dimostrato che la tromboprofilassi se correttamente effettuata è in grado di ridurre il rischio di TEV nei pazienti medici e chirurgici ospedalizzati. Sebbene sia stato riportato che la tromboprofilassi riduce il rischio di morte nei pazienti chirurgici, la maggior parte dei dati riguardanti i pazienti medici ospedalizzati è ancora ferma agli studi comparsi in letteratura circa 20 anni or sono, studi Medenox (5) ed Exclaim (6). In tali studi analizzando i sottogruppi, in particolare i pazienti ricoverati per infezioni polmonari, emerge come nei pazienti trattati con eparina vi sia una significativa riduzione degli eventi di TEV.

Azioni da attuare per evitare il tromboembolismo

A questo punto la domanda che ci dovremmo fare è che tipo di sforzi siano necessari per ridurre al minimo il rischio futuro di tromboembolismo, una patologia ben conosciuta ma a volte non affrontata correttamente.

Oltre al trattamento dei pazienti con diagnosi di TEV che è tema definito, sarebbe opportuno che il medico si concentrasse sin dall’inizio sull’identificazione dei pazienti ad alto rischio di TEV e sull’applicazione della profilassi, cercando di trovare i candidati più appropriati nei quali attuare uno schema terapeutico di prevenzione del TEV, questo soprattutto nei pazienti con malattie mediche acute infettive.

Chi sono questi pazienti candidati alla profilassi tromboembolica? Si stima che quasi il 40% dei pazienti ospedalizzati corre un rischio moderato o alto di sviluppare TEV durante malattie infettive acute (7): età superiore a 75 anni, la contemporanea presenza di neoplasie, obesità e una precedente storia di TEV, sono fattori di rischio ben noti. Una precedente infezione respiratoria può aumentare il rischio di EP o TEV nei 3 mesi successivi all’infezione, ma soprattutto occorre ricordare come l’associazione di TEV durante una infezione aumenta la mortalità.

Alcuni studi hanno stimato il rischio di TEV sulla base di un punteggio, Padua Score e IMPROVE quelli più utilizzati in letteratura, punteggi che se ben calcolati permettono al medico di individuare i fattori di rischio presenti e quindi anche i pazienti a maggiore rischio trombotico. Le complicanze tromboemboliche venose sono comuni tra i pazienti ospedalizzati, riportate tra il 10% e il 40%, da considerarsi equivalente a quella di pazienti sottoposti a chirurgia generale, nonostante ciò, si tende a sottovalutare il rischio e purtroppo la tromboprofilassi rimane ampiamente sottoutilizzata in pazienti con malattie mediche acute (7).

Da quello che si può evincere dalla letteratura tutta, la ricerca di TVP con EcoDoppler permetterebbe di avere dati più veritieri riguardo alla reale frequenza della complicazione TEV. Sapendo bene che le malattie infettive, insufficienza cardiaca o condizioni respiratorie sono tra le condizioni più comuni al momento del ricovero, aumentare la consapevolezza del rischio di TEV non potrà che aumentare la consapevolezza e quindi la scelta dell’uso della tromboprofilassi, con la naturale conseguenza di ridurre le complicanze, determinando migliori risultati a lungo termine.

Cosa ci ha insegnato il Covid-19 riguardo il tromboembolismo

Il SARS-CoV-2 porta a un danno endoteliale diffuso. Dopo essersi legato al sito dell’Eparansolfato, utlizza il recettore ACE2 che normalmente degrada l’angiotensina II, contribuendo alla attivazione di uno stato procoagulante. Il danno endoteliale e la risposta infiammatoria dell’ospite possono essere caratterizzati da eccessiva attivazione immunitaria e da una vera e propria tempesta di citochine, promuovendo l’ipercoagulabilità così pronunciata nel Covid-19,con complicanze trombotiche sia macrovascolari che microvascolari che superano di gran lunga le generiche complicazioni trombotiche delle infezioni acute.

La profilassi farmacologica standard con EBPM o UFH può risultare insufficiente in queste condizioni, che sono caratterizzate da una frequenza di TEV non trascurabile, un 5-15% che può arrivare al 20-41% se si considerano gli eventi arteriosi (8). Complicazioni che sono tanto più frequenti quanto è più grave la malattia, come nei gravi pazienti ricoverati in terapia intensiva, caratterizzati da una variazione dinamica giornaliera del rischio tromboembolico e emorragico. Tanto che i ricercatori sono stati spinti a ricercare il migliore approccio alla tromboprofilassi farmacologica con enoxaparina, ed in particolar modo a verificare quale potesse essere la dose ideale del farmaco.

Dai dati più recenti (HEP-COVID) (9) sappiamo ora che l’eparina a dose aumentata può aumentare la sopravvivenza alla dimissione dall’ospedale con un uso ridotto del supporto d’organo rispetto alla abituale profilassi tromboembolica. Iniziare la terapia anticoagulante presto quando la malattia è moderata o severa, e adoperare una dose intermedia, in base al peso corporeo, monitorando il FXa, avendo così la possibilità di “aggiustare” la dose con un aumento o riduzione della medesima a seconda dei casi, è stato l’impostazione scelta nello studio policentrico (13 centri ospedalieri italiani) oramai invia di pubblicazione, INHIXA-COVID-19, coordinato dalla Infettivologia dell’Università di Bologna diretta dal Prof. Pierluigi Viale.

Oggi abbiamo i dati di numerosi studi pubblicati che dimostrano come nei pazienti critici aumentare la dose di eparina può aumentare mortalità e numero di eventi emorragici maggiori, INSPIRATION e la multipiattaforma ACTIV-4a REMAP-CAP e ATTACC (10), in particolare. Il problema relativo alla dose ottimale di eparina rimane comunque aperto, anche se gli studi sopra citati già ipotizzano l’efficacia di una dose aumentata nei pazienti non critici, non ricoverati in terapia intensiva. agire presto e controllare l’efficacia della anticoagulazione è la chiave del successo terapeutico.

Sta quindi emergendo dalla letteratura la necessità di trattare la coagulopatia nel Covid-19 quando non è ancora esplosa la tempesta citochinica, una fase in cui è possibile utilizzare una dose di anticoagulante superiore a quella di profilassi come previsto dalle iniziali raccomandazioni WHO e fatte proprie da AIFA.

di Andrea Stella

eparina.com - Prof-Andrea-Stella

 

Tratto da General Medicine Tech, Anno 3, Numero 1, Marzo 2022

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