Nei pazienti oncologici, la seconda causa di decesso, dopo la malattia tumorale, è dovuta a un evento tromboembolico. Prevenire questa evenienza è possibile con un’adeguata informazione e relativa terapia anticoagulante. Ma in molti casi manca la consapevalezza del rischio che questo tipo di malati corre. Ne abbiamo parlato con il dottor Giuseppe Vercillo, Responsabile ambulatorio di Emostasi e Trombosi Istituto Nazionale Tumori-Istituto regina Elena di Roma.
Cancro associato a trombosi. Di quali dati disponiamo riguardo l’incidenza? E quali tipi di tumore presentano un maggior rischio?
La stretta correlazione esistente tra cancro e trombosi è nota ormai da oltre 150 anni, quando un medico francese, Armand Trousseau, descrisse per la prima volta un caso di tromboflebite in una giovane donna malata di cancro allo stomaco, era il 1865: ironia della sorte il dottor Trousseau si autodiagnisticò alcuni anni dopo il cancro e morì di trombosi!
L’incidenza delle trombosi cancro-correlate varia molto a seconda del tipo di neoplasia, dello stadio (locale o metastatico), del grado di aggressività e del tipo di trattamento anti-neoplastico, ma possiamo dire, in generale, che dal 3 al 6% dei pazienti oncologici svilupperà una patologia trombotica nel corso della sua malattia.
I tumori più trombogenici, cioè quelli maggiormente in grado di provocare trombosi, sono senza dubbio le neoplasie di pancreas, stomaco, ovaio e polmone, molto meno frequenti le trombosi da cancro della mammella o della prostata.
Il problema è che tutti i principali registri di popolazione (USA, Danimarca et al.) concordano nel registrare negli ultimi decenni, un incremento di circa 3 volte nel numero di eventi tromboembolici in oncologia (dal 1% al 3.4%) rispetto al passato, aumento legato anche ai nuovi trattamenti antineoplastici, quali inibitori delle tirosin-kinasi, farmaci antiangiogenetici o immunoterapici, tutti più trombogenici rispetto ai chemioterapici tradizionali.
Esistono delle Linee Guida riguardo la somministrazione di anticoagulanti nei pazienti oncologici? Cosa dicono?
La profilassi anticoagulante nel paziente oncologico in previsione di iniziare un trattamento chemioterapico è ancora oggi un vero e proprio dilemma: se da un lato sappiamo che la tromboprofilassi riduce il numero di eventi tromboembolici senza incrementare il rischio emorragico, dall’altro non sembra avere un impatto sulla sopravvivenza globale del malato.
Tutte le principali linee guida internazionali, dalla società oncologica americana (ASCO) alla società ematologica americana (ASH), dalla società oncologia europea (ESMO) alla nostra società di oncologia medica (AIOM), concordano nel non somministrare una tromboprofilassi di routine a tutti i pazienti oncologici ambulatoriali ma incoraggiano alla valutazione del rischio tromboembolico attraverso modelli di rischio validati da applicare prima e durante il trattamento chemioterapico. Ancora oggi il Risk Assessment Score (RAM) maggiormente utilizzato, e raccomandato dalle linee guida, è il Khorana Score sebbene presenti alcuni svantaggi tra cui l’incapacità di valutare il rischio emorragico e l’inapplicabilità verso alcuni tumori quale ovaio e polmone.
Si raccomanda, in generale, di iniziare la tromboprofilassi in quei pazienti che presentano un Khorana score con punteggio uguale o superiore a 2, e proseguirla per un minimo di 3-6 mesi, valutando sempre il rischio di sanguinamento (sanguinamento attivo, coagulopatia nota, trombocitopenia, etc).
Diversi studi hanno valutato l’utilizzo dell’Eparina a Basso Peso Molecolare o EBPM (Prothect 2009; Save-Onco e Fragem 2012; Conko-004 2015) mostrando una riduzione degli eventi tromboembolici senza incremento dei sanguinamenti maggiori o minori, e rivelando un trend di beneficio clinico nei pazienti classificati ad alto rischio per TEV.
Parliamo di consapevolezza dei pazienti riguardo il rischio tromboembolico. Il recente sondaggio pubblicato sulla rivista Cancer Treatment and Research Communications dimostra che è ancora troppo scarsa. Da cosa dipende?
La survey della European Cancer Patient Coalition (EPCP) organizzata dalla prof.ssa Falanga di Bergamo ai fini di evidenziare la consapevolezza del paziente oncologico riguardo il rischio di sviluppare un evento tromboembolico, in effetti, ha mostrato diverse criticità: soltanto il 21% degli intervistati ha dichiarato di avere una buona conoscenza della Trombosi Cancro-correlata (CAT) e fino ai 2 terzi dei pazienti oncologici non era stato informato dal suo “heath care professional” circa il rischio di CAT né educato su segni e sintomi per riconoscere precocemente una trombosi o un’embolia polmonare.
Una maggiore consapevolezza circa le azioni da intraprendere per prevenire la malattia trombotica è emersa dalla survey con il quasi 90% dei pazienti cosciente che l’attività motoria è assolutamente fondamentale in tal senso.
Questa scarsa consapevolezza forse riguarda anche gli Healthcare providers: da una survey all’interno dello studio Pelican del 2015 (Patients’ Experiences of LIving with CANcer associated thrombosis), rivolta a pazienti che avevano avuto una trombosi cancro correlata, emergeva la sensazione di una scarsa consapevolezza da parte del loro medico curante sulla CAT con una tendenza a considerare prima una diagnosi alternativa, es. un gonfiore monolaterale di un arto trattato con diuretico, piuttosto che una dispnea associata a dolore toracico trattata come polmonite con antibioticoterapia, che l’evento tromboembolico vero e proprio.
Inoltre, i risultati preliminari di una survey pubblicata su Journal Thrombosis Haemostasis nello scorso ottobre, che ha coinvolto circa 750 pazienti di 27 centri specializzati sulla gestione della CAT, hanno evidenziato che la maggioranza di loro (85%) considera essenziale un’adeguata formazione sul rischio trombotico ma, per oltre la metà, il loro Health-care provider non spende abbastanza tempo o non è sufficientemente chiaro sui temi legati alla CAT, e ancora il 22% riferisce ansia, frustrazione, tensione o depressione dopo aver ricevuto informazioni sul loro rischio tromboembolico e l’eventuale conseguente anticoagulazione.
Il problema è che l’arrivo di una tromboembolia nel paziente oncologico in trattamento chemioterapico comporta una serie di complicanze per nulla trascurabili: richiede l’avvio di una terapia anticoagulante per un periodo prolungato con il relativo rischio emorragico, peggiora la qualità di vita, ma soprattutto ritarda o interrompe la terapia anticancro peggiorando la prognosi della malattia e la sopravvivenza globale del paziente.
A chi spetta il compito di informare il paziente?
I dati emersi dalla survey della Falanga suggeriscono che a fornire informazioni su fattori di rischio, segni e sintomi del TEV, stili di vita e comportamentali da adottare o sulle terapie anticoagulanti con i loro effetti avversi dovrebbero essere forniti, a intervalli regolari, da un team oncologico multidisciplinare formato da medici (oncologo, ematologo, internista), infermieri e farmacisti.
Quali soluzioni sono praticabili per evitare di sottovalutare il rischio ed educare così i pazienti?
Oltre alla realizzazione di un team multidisciplinare dedicato, sarebbe opportuno incoraggiare i contatti medico-paziente attraverso incontri clinici sia di persona che in telemedicina, stimolare il self-learning con brochure o volantini dedicati, realizzare un CAT pathway locale che garantisca un continuum assistenziale con incontri specifici prima di avviare un trattamento chemioterapico o una chirurgia oncologica.
Una strategia educazionale di CAT sviluppata attraverso la realizzazione di un video che veniva mostrato al paziente prima di iniziare il suo percorso chemioterapico ha mostrato una riduzione dei tempi di diagnosi di TEV dal momento della comparsa dei sintomi (da 8.9 a 2.9 giorni) probabilmente legato a una maggiore consapevolezza della CAT da cui derivava una più rapida attivazione da parte del paziente e una più precoce consulenza clinica.
In conclusione, è ormai noto come la tromboembolia complichi in maniera importante il percorso, già di per sé tortuoso, del paziente oncologico, e che il paziente stesso non riceve adeguate informazioni sul suo rischio trombotico: è auspicabile, nel breve futuro, che i centri di riferimento si organizzino con percorsi dedicati, materiale informativo video o cartaceo, incontri periodici tra medico e paziente, per colmare questa importante lacuna.