Resistenza all’eparina: cosa sappiamo

La resistenza all’eparina è un fenomeno già conosciuto in medicina e tornato di recente alla ribalta con la pandemia da Covid-19. La resistenza a un farmaco si manifesta quando quest’ultimo, somministrato alla dose standard o comunque considerata adeguata, non fornisce l’attesa risposta terapeutica. Nel caso dell’eparina, si può definire come il mancato raggiungimento di un certo livello di anticoagulazione.
Tale resistenza è stata osservata in particolare in alcune condizioni: stati infiammatori, malattie oncologiche, infezioni con tendenza trombotica, malattie tiroidee. Tuttavia i meccanismi alla base di queste forme di resistenza sono a tutt’oggi ancora poco comprese, studiate e ancora meno standardizzate.

I test per il controllo della terapia anticoagulante

Uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine ha analizzato i meccanismi di resistenza a partire dai due test che misurano il livello di anticoagulazione: il tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT) e il tempo di coagulazione attivata (ACT).
Quando non c’è un incremento adeguato dell’aPTT in risposta a una certa dose di eparina, prima di poter parlare di resistenza al farmaco, occorre utilizzare anche altri test, come l’antiXA-cromogenico, in modo da avere informazioni più accurate sulla risposta clinica all’eparina.

L’aPTT, infatti, può variare significativamente in caso di malattie infiammatorie acute per la maggior concentrazione di proteine procoagulanti, come il fattore VIII ed il fibrinogeno, senza che questo incida sulla concentrazione di eparina. Pertanto, un abbassamento dell’aPTT in presenza di elevati livelli di fattore VIII non è indicativo di un minor effetto anticoagulante dell’eparina. Secondo gli autori dello studio è possibile poi che alcune molecole prodotte dall’organismo durante lo stato infiammatorio acuto, possano legare l’eparina e neutralizzare in parte l’effetto.

L’altro test l’ ACT, viene comunemente utilizzato per osservare l’effetto prodotto da elevate dosi di eparina non frazionata nelle varie fasi di un intervento chirurgico, durante dialisi, angioplastica o bypass cardiaco. In questo caso, i livelli di eparina sono controllati fino a che il paziente non si sia stabilizzato e la dose di anticoagulante ridotta. Il tempo di coagulazione attivata può però risultare prolungato indipendentemente dal livello di eparina, a causa di altri fattori concomitanti come ipotermia, emodiluizione o deficit di fattori coagulativi.

Resistenza all’eparina e antitrombina

Un meccanismo frequentemente chiamato in causa nella resistenza all’eparina è la carenza di antitrombina, che si verifica in condizioni patologiche come la sepsi o patologie epatiche, o l’utilizzo uso di circuiti extracorporei. Non vi sono tuttavia linee guida riguardanti la supplementazione di antitrombina per ripristinare la responsività all’eparina. In diversi trial aventi come oggetto procedure di bypass cardiopolmonare, la somministrazione di antitrombina è risultata efficace nel migliorare l’azione anticoagulante dell’eparina. Ma al di fuori di questo contesto, non ci sono dati che confermino un beneficio clinico fornito dalla supplementazione di antitrombina.

Altri ambiti di possibile resistenza all’eparina

Un’altra condizione di possibile resistenza all’eparina è rappresentata da molti stati infiammatori severi, oltre a COVID-19 e influenza H1N1, che sono associati a un rischio trombotico elevato, a sua volta dovuto ad elevati livelli di alcuni fattori di coagulazione. Questi possono anche provocare un accorciamento dell’aPTT, suggerendo quindi una resistenza all’eparina e inducendo dosi più elevate di farmaco per ottenere valori di aPTT nel range standard. Infine, si è visto che l’utilizzo di andexanet alfa, un antiemorragico somministrato in alcuni casi prima di un intervento cardiochirurgico, ha portato alla necessità di aumentare le dosi di eparina per ottenere livelli di anticoagulazione adeguati durante l’intervento.

La resistenza all’eparina e Covid-19

In tempi recenti sono stati pubblicati diversi studi sulle manifestazioni trombotiche legate a Covid-19 nei pazienti ricoverati in terapia intensiva, e il relativo fenomeno della resistenza all’eparina. In un trial effettuato presso l’ospedale di Legnano (Milano), 37 pazienti trattati con eparina ricoverati in terapia intensiva per polmonite da SARS-CoV-2, sono stati studiati retrospettivamente per l’attività dell’antifattore Xa (anti-Xa), il tempo di tromboplastina parziale attivata (APTT), l’antitrombina, il fibrinogeno, il D-dimero, il fattore VIII, il fattore von Willebrand e la quantità giornaliera totale di eparina somministrata.

Ventuno pazienti hanno ricevuto eparina calcica, 8 eparina sodica e 8 eparina a basso peso molecolare. È emerso che circa il 75% dei pazienti si è mostrato resistente all’eparina. Il test Anti-Xa sembra essere il metodo più affidabile per monitorare il trattamento con eparina rispetto all’APTT nei pazienti acuti, anche perché il test è insensibile agli aumentati livelli di fibrinogeno, fattore VIII e anticorpi LAC che sono comuni durante lo stato infiammatorio COVID-19.

La resistenza all’eparina quindi, è un fenomeno ancora da indagare, e viene spesso chiamata in causa quando i risultati dei test di laboratorio non rientrano nei valori considerati normali. In questi casi occorre però considerare i fattori che possono interferire e utilizzare altri test per ottenere un’informazione più accurata sulla risposta clinica all’eparina. Infine, è importate ricordare che in corso di stati infiammatori acuti, esiste la possibilità che molte molecole possano effettivamente legare l’eparina e neutralizzarne in parte l’effetto.


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