Quando si parla di rischio tromboembolico o rischio di trombosi venosa agli arti inferiori, ci si riferisce alla probabilità che si formi un coagulo di sangue nelle vene delle gambe e talvolta anche nell’arteria polmonare, un’eventualità che può comportare anche gravi conseguenze per la salute della donna. «Esistono vari fattori, congeniti e acquisiti, che possono aumentare il rischio che una donna in gravidanza coaguli più del normale, causando un ridotto passaggio di nutrienti e ossigeno al bambino. La letteratura scientifica parla in questo caso di “complicanze mediate dalla placenta”», spiega Elvira Grandone, professore associato di Ostetricia e ginecologia presso l’Università degli studi di Foggia e medico responsabile dell’Unità di emostasi e trombosi dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza.
Gravidanza: quando il rischio tromboembolico aumenta
«Se le donne, in generale, hanno un rischio tromboembolico più elevato, alcune presentano un rischio ulteriormente aumentato, perché appartengono a famiglie in cui questi eventi si sono già verificati (famigliarità), oppure perché vanno incontro a una gravidanza dopo i 35 anni di età (un limite oltre il quale, secondo i dati disponibili in letteratura, il rischio di questi eventi cresce), o, ancora, perché la gravidanza è stata ottenuta attraverso un percorso di procreazione mediamente assistita. A questo proposito la Siset, Società italiana per lo studio dell’emostasi e trombosi, sta elaborando una linea guida ad hoc, di cui sarò la coordinatrice».
Tra le gravidanze cosiddette difficili, che presentano un rischio tromboembolico maggiore delle altre e quindi richiedono particolari accortezze, annoveriamo quelle successive per esempio a due o più aborti. Si tratta di condizioni multifattoriali, cioè determinate dalla contemporanea presenza di più condizioni, quindi è spesso difficile per lo specialista identificare di volta in volta il ruolo dei singoli fattori di rischio. L’età avanzata e una condizione di cosiddetta “ipercoaguabilità” (tendenza maggiore a produrre coaguli) sono fattori di rischio accertati.
Anche le gravidanze con bambini piccoli per età gestazionale (ritardo nella crescita fetale), associate o meno a pre-eclampsia (ipertensione materna associata alla presenza di proteine nelle urine), sono considerate a rischio e l’età materna, come la coagulazione, giocano anche qui un ruolo.
La prevenzione con eparina
La somministrazione di eparina a basso peso molecolare è una terapia efficace per prevenire le complicanze fetali. «Il problema è che nelle linee guida attuali non c’è un’indicazione precisa sull’utilizzo di eparina per la prevenzione di questi eventi nelle gravidanze difficili e il tema causa attualmente diversi dibattiti tra i ricercatori», prosegue la dottoressa.
«I dati in letteratura sono contraddittori perché mancano studi in doppio cieco randomizzato, condotti da specialisti in ginecologia e ostetricia, anche per la riluttanza delle donne gravide a parteciparvi. Sono usciti due studi randomizzati, pubblicati su Lancet Hematology, sul rischio di trombosi venose e/o di embolia polmonare in corso di gravidanza e sul rischio di complicanze ostetriche (studio HighLow e Alife 2), che presentano ancora molte criticità. In particolare, l’Alife 2 si concentra su donne a basso rischio di sviluppare complicanze fetali, mentre mancano dati sullo schema terapeutico e sulla durata del trattamento di eparina per prevenire il rischio tromboembolico della mamma».
Quindi attualmente spetta a ogni specialista il compito di decidere se prescrivere o meno l’eparina sulla base del singolo caso, dopo un’accurata anamnesi della donna e un’analisi dei rischi specifici. «Se è vero che l’uso di eparina previene efficacemente il rischio tromboembolico in gravidanza», chiarisce Grandone, «è anche vero che non è razionale, allo stato attuale delle conoscenze, prescriverla a ogni donna in gravidanza, anche a quelle considerate a basso rischio, perché oggi sappiamo con certezza che il trattamento espone a un rischio emorragico non trascurabile, a pari a circa il 2%».
Un nuovo studio sul rischio tromboembolico in gravidanza
«Abbiamo già pubblicato un primo studio prospettico osservazionale non randomizzato, chiamato Ottilia (2021) e pubblicato su Human Reproduction, l’organo ufficiale della Società europea di medicina della riproduzione, che ha dimostrato l’efficacia di eparina nella prevenzione del rischio tromboembolico in gruppi selezionati di donne considerate ad alto rischio (gravidanze difficili), perché presentano una o più delle situazioni sopra descritte», racconta l’esperta. «A queste donne si aggiungono anche quelle che hanno sofferto di trombosi venosa durante l’utilizzo della pillola contraccettiva: una volta in gravidanza, devono assumere eparina perché è dimostrato che sono a rischio di recidiva».
Gli studi futuri dovranno proseguire su questa linea, includendo solo donne ad alto rischio tromboembolico e/o di complicanze ostetriche. «Come accennato, non abbiamo ancora identificato il dosaggio corretto per le donne che vanno incontro per la prima volta a un evento tromboembolico», conclude Elvira Grandone. «Il nostro centro, Casa Sollievo della Sofferenza, è promotore di uno studio pilota randomizzato, chiamato Apricot, che coinvolge diversi centri italiani, volto a identificare gli schemi terapeutici corretti (dosaggio e durata della terapia) da utilizzare nelle donne che manifestano per la prima volta una trombosi venosa in gravidanza».