Terapia ormonale nella donna e rischio trombosi: come regolarsi?

di Giuseppe Vercillo, Responsabile ambulatorio di Emostasi e Trombosi Istituto Nazionale Tumori-Istituto Regina Elena di Roma.

 

Ricevo questo quesito: “Devo sottopormi a un intervento di protesi dell’anca e dovrò fare tromboprofilassi con eparina per almeno un mese. Sto assumendo la terapia ormonale sostitutiva, che mi è stata somministrata per la mia artrosi. Come devo regolarmi? Posso continuare ad assumere la TOS o devo sospenderla?”.

In effetti, ancora oggi, non vi sono chiare indicazioni se, e soprattutto quando, sospendere la terapia ormonale nel preoperatorio. In particolare, in questo caso, dobbiamo considerare come ulteriore aggravante protrombotica il fattore età, che si aggiunge alla rilevante trombogenicità insita nell’intervento di protesi cui la paziente deve sottoporsi. Pertanto il suggerimento è, qualora possibile, di sospendere la terapia ormonale almeno 4 settimane prima della chirurgia per riprenderla 60 giorni dopo l’intervento.

Ma qual è il rischio tromboembolico legato alla terapia ormonale?

Oggi giorno, a livello mondiale, centinaia di milioni di donne usano estrogeni esogeni come come terapia sostitutiva nel periodo post-menopausale o come terapia ormonale contraccettiva, anche se sono note da tempo evidenze significative di come l’uso di estrogeni, in entrambe queste situazioni, sia associato a un aumentato rischio di trombosi, sia venose che arteriose.
Alla base dell’aumentato rischio abbiamo, come vedremo, sia la dose di estrogeno somministrata che la via di somministrazione del farmaco stesso.

La donna produce 3 tipi di estrogeni endogeni, il 17ß estradiolo (E2), la forma più potente di estrogeno prodotto dalle ovaie i cui livelli si riducono sensibilmente dopo la menopausa, l’Estrone (E1) e l’Estriolo (E3) metaboliti meno potenti.
Tali ormoni sono principalmente utilizzati per la terapia ormonale sostituiva e la contraccezione, in particolare i contraccettivi ormonali combinati (COC) sono quelli maggiormente prescritti e i preferiti per la prevenzione delle gravidanze indesiderate.
Essi contengono una delle 4 forme di estrogeni oggi disponibili: L’Etinil-Estradiolo (EE), il 17ß Estradiolo (E2), l’Estradiolo Valerato (E2V) e il Mestranolo (M), oggi sostanzialmente abbandonato.

Le pillole contraccettive combinate agiscono inibendo lo sviluppo dei follicoli e dell’ovulazione: in particolare il progesterone riduce i livelli di GnRH (Gonadotropin Releasing Hormone) esercitando un effetto a feedback negativo sull’ipotalamo, inducendo una ridotta secrezione di FSH e LH da parte dell’adenoipofisi, prevenendo così lo sviluppo dei follicoli e l’impennata del LH a metà ciclo necessaria per l’ovulazione.

È a partire dal 1970 che, riconosciuta una stretta correlazione tra le pillole contraccettive e la trombosi, le principali aziende produttrici hanno iniziato a ridurre la quantità di estrogeni all’interno delle pillole, così da passare dai 50 microgrammi (µgr) di estrogeno del 1970 a livelli inferiori ai 35 µgr delle pillole degli anni 80. Di certo, maggiore è la quantità di estrogeno all’interno delle pillole combinate, maggiore è il rischio della donna di sviluppare una patologia tromboembolica, tanto che a oggi, il contenuto di estrogeni è quasi sempre inferiore ai 50 µgr.

Anche la via di somministrazione dell’ormone è stata indagata per capire se vi siano differenti rischi trombotici tra gli utilizzatori di pillole combinate e le donne, a esempio, portatrici di anello vaginale. Alcuni studi hanno mostrato un maggior rischio trombotico negli utilizzatori dell’anello rispetto a donne che assumevano pillole contenenti il levonorgestrel, progestinico che ha un minor impatto sulla trombosi, anche se, studi successivi, non hanno confermato questa ipotesi.

È chiaro invece che, essendo la patologia trombotica una patologia multifattoriale, bisogna sempre considerare tutti quei fattori che possono incrementare il burden trombotico della donna in procinto di iniziare una terapia ormonale: l’età superiore ai 35 anni, il fumo di sigaretta, l’indice di massa corporea superiore a 30, l’immobilizzazione prolungata, una precedente trombosi o una storia familiare positiva per patologia tromboembolica. Questo perché tali fattori si aggiungono a uno stato di ipercoagulabilità indotto dagli ormoni.

Terapia ormonale: perché aumenta il rischio trombosi

È’ noto, infatti, da tempo che la terapia ormonale combinata determina multipli cambiamenti emostatici in senso protrombotico anche se l’esatto meccanismo molecolare alla base delle trombosi indotte dagli estrogeni rimane ancora da chiarire.
L’impatto degli estrogeni sull’emostasi primaria sembrerebbe dipendere da un aumentato rilascio da parte delle cellule endoteliali del fattore di Von Willebrand (VWF) potente colla molecolare che favorisce l’adesione delle piastrine sulla superficie dell’endotelio danneggiato.

Uno studio randomizzato cross over tra donne ha mostrato che l’utilizzo di COC influenza la cascata coagulativa attraverso un incremento dei livelli plasmatici dei fattori della coagulazione II, VII, VIII, X e del fibrinogeno e questi cambiamenti erano più evidenti se il progestinico era a base di desogestrel rispetto al levonorgestrel.

Anche gli inibitori fisiologici della coagulazione sembrano risentire dell’effetto dei COC attraverso una riduzione quantitativa dell’antitrombina, dell’inibitore della via del fattore tissutale (TFPI) e della proteina S come emerso da alcuni studi sulle donne in menopausa.

Tutti questi cambiamenti determinano uno “sbilanciamento” in senso protrombotico della bilancia emostatica e sono alla base dell’aumentato profilo di rischio trombotico nella donna in terapia ormonale.
A questo stato protrombotico ormonale, può unirsi una ipercoagulabilità propria della donna magari legata a un trait trombofilico di cui lei stessa non è a conoscenza.

A tal proposito occorre sottolineare che, spesso e volentieri, il pannello trombofilico viene richiesto in maniera del tutto inappropriata, ricercando polimorfismi di scarso interesse dal punto di vista clinico quale quello della Metil-Tetra-Hidro-Folato-Reduttasi (MTHFR) nelle sue due varianti T677C e A1298C, o altri polimorfismi di scarso valore predittivo, e anche per questo motivo se ne sconsiglia l’uso di routine.

Gli approfondimenti da fare

Laddove lo studio della trombofilia ereditaria sia indicato (es. storia familiare positiva per patologia tromboembolica) si raccomanda la ricerca solo del fattore V Leiden (o del suo fenotipo Resistenza alla Proteina C Attivata, APCR), della Protrombina mutazione e dei deficit degli inibitori fisiologici della coagulazione, Antitrombina, Proteina C e Proteina S.

Ricapitolando, in sede di counselling prima di prescrivere una terapia ormonale, essendo la patologia trombotica una patologia multifattoriale, dobbiamo sempre considerare gli eventuali fattori di rischio trombotico presenti, possibili criteri di esclusione alla somministrazione dell’ormone, quali:

  • un precedente episodio di TEV;
  • un’importante storia familiare di tromboembolismo venoso senza una causa identificata o un difetto ereditario presente;
  • trombofilia “severa” quale le omozigosi del fattore V o II, le eterozigosi composte, il deficit severo di PC, PS, AT o la sindrome da anticorpi antifosfolipidi;
  • la presenza di altre comorbidità quali: ipertensione incontrollata, pregresso stroke o IMA, fumo oltre i 35 anni di età, o emicrania con aura.

In assenza di controindicazioni alla terapia ormonale, possiamo pensare, come già anticipato, a una terapia combinata abbinando all’estrogeno un progestinico di II generazione a base di Levonorgestrel avendo quest’ultimo un effetto “protettivo” nei confronti dell’estrogeno protrombotico.

In ultimo non è prevista una tromboprofilassi con EBPM o altro anticoagulante/antiaggregante durante l’assunzione della terapia ormonale a meno che non sopraggiungano fattori di rischio aggiuntivi ad aumentare il profilo tromboembolico della donna.

 

 

 

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