L’embolia polmonare (EP) è la terza malattia cardiovascolare più frequente dopo infarto del miocardio e ictus cerebrale, con un’incidenza annuale di 100-200 casi su 100000 abitanti. Di questi eventi tromboembolici, un terzo circa è grave (tromboembolia polmonare massiva) e nonostante terapie sempre più efficaci e soprattutto mezzi di diagnosi più accurati, ancora un quarto dei pazienti va incontro a decesso. Prima dei 50 anni è relativamente rara (1 caso su 1.000/anno) ma aumenta con l’età arrivando a colpire una persona su 100 tra gli ottantenni.
Una diagnosi non sempre immediata
«L’embolia polmonare non è sempre clinicamente sospettabile e diagnosticabile con facilità: talvolta può essere quasi completamente asintomatica e risulta di riscontro occasionale ad una tac eseguita per altri motivi o per escluderla nel paziente con trombosi venosa. In altri casi si manifesta in modo estremamente sintomatico e tipico» spiega il professor Corrado Lodigiani, Responsabile del Centro Trombosi e Malattie Emorragiche IRCCS Humanitas Research Hospital, Rozzano (Mi). «Quando compaiono, i principali sintomi sono dispnea improvvisa (respirazione difficoltosa), dolore al torace, cianosi, tosse, febbre sopra i 38 °C, tachicardia e ipotensione e in rari casi emottisi (sangue nell’espettorato) o per fortuna raramente arresto cardiaco».
Embolia polmonare: come si valuta il rischio
Quando il medico sospetta un’embolia polmonare è necessario eseguire al più presto accertamenti strumentali diagnostici per la conferma (tac torace con mezzo di contrasto oppure scintigrafia polmonare perfusoria-ventilatoria). Se confermata la diagnosi, è indispensabile procedere alla stratificazione del rischio di mortalità a prescindere dalla estensione radiologica della trombosi polmonare. A tale scopo si possono utilizzare degli score, ossia a dei punteggi da attribuire alle diverse manifestazioni cliniche o all’esito di specifici accertamenti. In base al risultato ottenuto, si ha l’indicazione del rischio, ossia della gravità in termini di mortalità del paziente.
«Il PESI (Pulmonary Embolism Severity Index) sembra essere lo score più attendibile: dà un punteggio per tutta una serie di parametri» precisa il professor Lodigiani. Questi sono: età del paziente, sesso maschile, neoplasia, insufficienza cardiaca cronica, patologie polmonari croniche, frequenza cardiaca > 110/min, pressione arteriosa < 100 mmHg, frequenza respiratoria > 30 atti/minuto, temperatura corporea < 36°C, alterazione dello stato mentale, saturazione dell’ossigeno < 90%. Esiste anche uno score PESI semplificato (sPESI): secondo le linee guida europee, i pazienti con un punteggio sPESI pari a 0 possono essere trattati a casa, a condizione che si possa garantire loro un adeguato follow-up e una terapia anticoagulante.
Quando l’embolia polmonare è ad alto rischio
Il trattamento dell’embolia polmonare grave o ad alto rischio richiede la stabilizzazione emodinamica del paziente, il ripristino della normale saturazione di ossigeno nel sangue, arrivando se necessario alla ventilazione meccanica. Al paziente ospedalizzato vengono somministrati in endovena farmaci trombolitici fra cui il più usato è rTPA (attivatore del plasminogeno tissutale ricombinante). Altri trombolitici sono l’alteplase, la tenecteplase e la streptochinasi, che servono ad attivare la fibrinolisi e quindi sciogliere i coaguli di sangue nel circolo polmonare. In casi limite, quando l’embolia polmonare è massiva, si può, decidere di intervenire chirurgicamente, rimuovendo gli emboli.
Rischio intermedio-basso: come si interviene
Le più recenti linee guida presentate a ESC 2019 a Parigi, raccomandano l’utilizzo degli anticoagulanti orali diretti (DOAC) come gold standard per il trattamento dell’embolia polmonare di rischio intermedio-basso (PESI I-IV), anche se di recente si sta studiando l’utilizzo di trombolitici a dosaggio ridotto.
«La terapia standard prevede quindi o la somministrazione di eparina a basso peso molecolare (ad esempio enoxaparina), o fondaparinux in fase acuta (ossia nei primi 5-7 giorni); superata questa fase, i farmaci parenterali possono essere direttamente sostituiti con un DOAC. La terapia anticoagulante va proseguita in ogni caso per almeno 3-6 mesi nel caso soprattutto di embolia polmonare secondaria a fattore scatenante “rimovibile” (intervento chirurgico, frattura o immobilità temporanea).
In caso invece di embolia polmonare spontanea e/o secondaria ad un fattore di rischio non rimovibile (ad esempio cancro, paresi, obesità, trombofilia maggiore) la terapia anticoagulante, deve essere proseguita indefinitivamente (long term or extended therapy). Ovviamente in tal caso è fondamentale valutare il rapporto rischio/beneficio della terapia anticoagulante permanente» spiega lo specialista per escludere un prevalente rischio emorragico.
«L’unica situazione in cui non sono consigliabili i DOAC è la presenza di insufficienza renale, laddove la clearance della creatinina sia inferiore a 15 ml/min. In questo caso nella fase acuta si deve utilizzare l’eparina non frazionata in infusione endovenosa e nella fase subacuta e long term i farmaci antagonisti della vitamina k o dicumarolici (warfarin o acenocumarolo)».
La terapia di embricazione: di cosa si tratta
Prima dell’avvento dei nuovi anticoagulanti orali, superata la fase acuta, si passava alla successiva fase intermedia embricando il trattamento iniziale (sempre con eparina a basso peso molecolare o fondaparinux) con i dicumarolici. Occorreva cioè un breve periodo di somministrazione contemporanea delle due terapie, fino a dimostrato effetto del dicumarolico mediante analisi del tempo di protrombina (espresso in Inr) . Con i DOAC, che raggiungono in poche ore dosaggi adeguati nel sangue, non è necessaria embricazione. Tra questi, inoltre, rivaroxaban e apixaban, come hanno dimostrato gli ultimi studi, consentono il cosiddetto single drug approach: possono cioè essere assunti come unica terapia già al momento della diagnosi, utilizzando però un dosaggio maggiore di quello usato nella fase sub acuta.