La sindrome da anticorpi antifosfolipidi (APS) è una rara condizione autoimmune sistemica caratterizzata da eventi trombotici venosi o arteriosi e/o morbidità gravidica, associati a positività per anticorpi antifosfolipidi (anticoagulante lupico, anticardiolipina IgG e IgM, antibeta2GPI IgG e IgM).
In caso di APS gli autoanticorpi agiscono contro i fosfolipidi delle membrane cellulari dirigendosi prevalentemente sulle pareti dei vasi causando un danno che provoca trombosi. Ne parliamo con il dottor Paolo Cavoretto, ginecologo ostetrico presso l’Unità di Ginecologia e Ostetricia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele diretta dal prof. Massimo Candiani.
Diagnosi di sindrome da anticorpi antifosfolipidi
L’APS è correntemente definita secondo i Criteri di Sapporo del 1998, revisionati a Sydney nel 2006 . Per diagnosticare l’APS devono essere soddisfatti un criterio clinico e un criterio di laboratorio.
Criteri clinici attualmente in vigore per stabilire la presenza di APS
≥ 1 episodi di trombosi arteriosa o venosa o dei piccoli vasi in qualsiasi tessuto od organo
≥ 1 episodi di morte fetale da causa ignota con feto apparentemente normale, dalla 10^ settimana di gestazione in avanti
una o più nascite premature (prima della 34^ settimana di gestazione) di neonati normali, avvenute per pre-eclampsia severa o eclampsia o insufficienza placentare
≥ 3 aborti spontanei consecutivi prima della 10^ settimana di gestazione, senza cause note e con assenza di anormalità cromosomiche paterne o materne
Criteri di laboratorio per stabilire la presenza di APS
Consistono nel riscontro dei seguenti anticorpi antifosfolipidi nel sangue:
1) anticorpi anticardiolipina di classe IgG o IgM
2) anticorpi antibeta 2 Glicoproteina1 IgG o IgM
3) Anticoagulante lupico (Lupus Anticoagulant)
La positività degli antifosfolipidi deve essere riscontrata in almeno due occasioni consecutive a distanza superiore alle 12 settimane l’una dall’altra. Altri anticorpi sono in fase di studio e non sono attualmente inclusi nella definizione di APS ma possono essere valutati a discrezione dello specialista e del contesto clinico.
Sindrome da anticorpi antifosfolipidi in gravidanza
La gravidanza in pazienti affette da APS comporta un maggiore rischio di complicanze sia materno che fetali: tromboembolia, sanguinamenti, pre-eclampsia, disturbi ipertensivi gravidici sul versante materno e sul versante fetale aborto precoce e tardivo, ritardo di crescita intrauterina, nascita pretermine, necessità di cure intensive alla nascita nonché mortalità perinatale.
Nella donna con APS la gravidanza risulta quindi a rischio ma la progressiva conoscenza della malattia ha portato alla definizione di strategie terapeutiche efficaci. Se in assenza di terapia specifica la probabilità di un buon esito per gravidanza è decisamente limitata, dopo corretta diagnosi e idonea cura, la percentuale di esiti favorevoli aumenta notevolmente. Di fondamentale importanza resta la prevenzione delle complicanze ostetriche con adeguate terapie intraprese all’inizio della gestazione. In ogni caso l’esito della gravidanza nelle pazienti con APS è condizionato in senso positivo dalla presenza dei seguenti fattori: positività di soli 1-2 anticorpi, titolo anticorpale basso, assenza di lupus associato, assenza di danno d’organo e di altre comorbidità gravi.
Cosa è bene sapere prima
È necessario che una donna potatrice di APS, sia informata di alcune priorità, prima di cercare una gravidanza:
accedere ed essere seguita presso un centro con possibilità di gestione multidisciplinare e con esperienza nella gestione di gravidanze in malattie autoimmuni, afferente a un punto nascita attrezzato per gestione della prematurità con cure neonatali intensive;
sottoporsi ad uno stretto monitoraggio della gravidanza con cadenza più frequente rispetto alla popolazione generale con regolari visite cliniche, esami ematologici ed ecografie ostetriche dettagliate con studi Doppler materni e fetali (dal primo trimestre in poi e fino al parto).
APS: la terapia
Per una corretta decisione terapeutica occorre definire per ogni singola donna, sulla base dell’anamnesi clinica, il rischio materno e fetale. Le seguenti indicazioni di massima sono condizionate al monitoraggio della gravidanza presso un centro specializzato alla diagnosi precoce di complicanze ostetriche (caso in cui possono rendersi necessarie ulteriori terapie):
In caso di positività degli anticorpi antifosfolipidi in assenza di precedenti eventi trombotici e complicanze ostetriche si può ricorrere alla sola aspirina a basso dosaggio.
Pur in assenza di eventi trombotici e complicanze ostetriche, la positività confermata, associata ad un profilo ad alto rischio indica l’associazione di aspirina ed eparina a basso peso molecolare (EBPM) a dosi profilattiche.
L’assunzione di aspirina a basso dosaggio va iniziata prima del concepimento e continuata fino alla 36ma settimana. Dalla 36ma settimana viene sostituita da EBPM.
È consigliato supplementare sempre con acido folico e dal secondo trimestre con calcio e vitamina D.
Nelle pazienti con complicazioni ricorrenti della gravidanza può essere presa in considerazione aumento dell’eparina alla dose terapeutica, aggiunta di idrossiclorochina o aggiunta di prednisolone a basso dosaggio nel primo trimestre.
Il ruolo dell’eparina nel post-partum
In caso di positività confermata degli anticorpi antifosfolipidi in assenza di eventi trombotici ma con aborti precoci ricorrenti, complicanze gravidiche tardive (morte fetale, parto pretermine per pre-eclampsia o insufficienza placentare) oppure precedenti eventi trombotici, alla terapia con aspirina si affianca quella con EBPM a dosi profilattiche. Da ricordare che l’eparina a basso peso molecolare (EBPM) non attraversa la placenta e si può quindi considerare farmaco sicuro per il feto.
Nelle donne con APS si consiglia in genere il parto vaginale onde ridurre il rischio di trombosi post-partum, salvo nel caso sopravvengano complicanze materno-fetali. Si può anche valutare l’induzione del parto vaginale per gestire meglio la terapia anticoagulante. In caso sia prevista anestesia spinale o analgesia peridurale, l’assunzione di EBPM va sospesa 12 ore prima se il farmaco è assunto a dosi tromboprofilattiche, 24 ore prima se assunto a dosi terapeutiche.
La terapia anticoagulante viene ripresa nel postpartum non appena siano state escluse complicanze emorragiche e continuata per una durata di almeno 6 settimane, estensibile a 12 in pazienti con alto profilo di rischio anticorpale (e.g., triplice positività) e pregressa storia di APS. Dopo la sospensione dell’EBPM si può riprendere, se indicato, l’assunzione di aspirina a basso dosaggio.
Per quanto riguarda l’allattamento EBPM, warfarin, aspirina a basso dosaggio ed idrossiclorochina risultano compatibili, mentre gli anticoagulanti diretti-DOAC non lo sono. In corso di terapie epariniche è sempre consigliabile la supplementazione con calcio (1000 mg/die),Vit D3 (800 UI/die) ed eventualmente ferro e acido folico.
In particolari situazioni od in forme cliniche particolarmente gravi, sempre su valutazione del singolo caso da parte dell’equipe medica, si può ricorrere all’assunzione di idrossiclorochina, infusione endovenosa di immunoglobuline e plasmaferesi.