Secondo gli ultimi dati riportati nel 2024 dall’Istituto Superiore di Sanità, l’ictus- che si sviluppa a partire da una ischemia cerebrale nella maggior parte dei casi- rappresenta la seconda causa di morte nel mondo dopo la cardiopatia ischemica e la prima causa di disabilità. In Italia si verificano circa 200.000 casi di ictus ogni anno, con un’incidenza di 2-3 nuovi casi all’anno ogni 1000 abitanti.
Si stima che l’azione preventiva sui principali fattori di rischio modificabili permetterebbe di evitare circa il 90% degli eventi cerebrali, riducendo da un lato la mortalità legata alla patologia acuta e dall’altro i costi sanitari legati agli esiti invalidanti.
Abbiamo parlato con la dottoressa Serena Frezza, Medico Chirurgo Specialista in Chirurgia Vascolare presso il Poliambulatorio AEsthe Medica di Ferrara dell’ischemia cerebrale e del ruolo che può svolgere l’eparina in questo evento avverso acuto.
Che cosa è l’ictus
Si tratta di un danno cerebro-vascolare acuto che insorge a causa dell’improvvisa riduzione dell’apporto di ossigeno e sostanze metaboliche al cervello determinando una rapida alterazione delle funzioni cerebrali.
L’ictus emorragico da rottura di un’arteria, causata, ad esempio, da ipertensione non controllata, aneurisma, uso di anticoagulanti, traumi, è l’evenienza più grave, ma anche la meno frequente che interessa circa il 20% dei casi totali di ictus.
Si parla invece di ictus ischemico, che è il più frequente e si manifesta nell’80% dei casi quando, a causa dell’aterosclerosi, si formano delle placche a livello della parete arteriosa che, crescendo, costituiscono un’ostruzione al passaggio del sangue. Tali placche si possono rompere con conseguente formazione di un trombo sulla superficie ed ostruzione improvvisa dell’arteria, o frammentare con immissione in circolo di piccole porzioni di coagulo che vengono trasportate con il flusso sanguigno causando l’occlusione di un vaso di diametro inferiore alla dimensione del frammento stesso (embolo).
Gli emboli, che possono avere varia origine oltre a quella legata alla presenza di placche (si parla di emboli di gas, di grasso o settici se infetti) hanno però più frequentemente un’origine cardiaca: quando all’interno della cavità cardiaca (atrio sinistro) si formano dei coaguli che vengono immessi nel circolo arterioso, come nel caso di pazienti affetti da fibrillazione atriale ad esempio, questi possono causare un’ostruzione al flusso di sangue in vari distretti del corpo. Proprio a valle di tale ostruzione si crea un’area di ridotto apporto di ossigeno e di nutrienti, non più sufficienti a mantenere le funzioni metaboliche del tessuto colpito: si crea, quindi, un’area di ischemia che comporta danni irreversibili e necrosi cellulare.
L’importanza del fattore tempo
I sintomi dell’ischemia cerebrale sono evidenti e improvvisi: una cefalea persistente, molto più intensa di quella che si è abituati a percepire e che non passa con antidolorifici di uso comune, l’impossibilità (o la difficoltà) a muovere braccio e gamba dello stesso lato, formicolio persistente o perdita di sensibilità di un arto, difficoltà improvvisa a parlare e asimmetria del volto, restringimento del campo visivo che quindi fa apparire la visione più ristretta ai bordi.
Il cervello riceve circa il 15% di sangue emesso con la gittata cardiaca, con un flusso cerebrale che è in media 50 ml per 100g tessuto al minuto, e si mantiene costante autoregolandosi grazie alla presenza di vari meccanismi fisiologici.
Al di sotto di tale soglia e, per ogni minuto che passa, vengono persi 1.9 milioni di neuroni, 14 miliardi di sinapsi e 12 Km di fibre nervose. Ogni 4 minuti 1 su 100 pazienti può ritrovarsi con maggiore disabilità e ogni 6 minuti 1/100 pazienti perde la propria autonomia. In caso di un evento ischemico acuto il fattore tempo risulta dunque fondamentale: solo un intervento tempestivo, mirato al ripristino di un adeguato flusso ematico cerebrale entro le 6 ore dall’insorgenza dei sintomi, aumenta la sopravvivenza e riduce il rischio di disabilità residue permanenti.
Come si interviene
Negli ospedali è attivato il “percorso stroke”, ossia un protocollo diagnostico-terapeutico sia medico che infermieristico, che garantisce il soccorso coordinato a questi pazienti nel più breve tempo possibile. Si tratta infatti di pazienti complessi che necessitano del supporto e dell’assistenza di un team multidisciplinare formato da neurologi, neuroradiologi, anestesisti e chirurghi vascolari. Dopo un’accurata visita e l’esecuzione di esami diagnostici mirati, i pazienti possono essere candidati a procedure di rimozione del coagulo per via farmacologica, la cosiddetta trombolisi endovenosa, o per via meccanica (trombectomia meccanica e tromboaspirazione).
La trombolisi endovenosa
È una terapia che prevede l’iniezione intravenosa di un farmaco trombolitico.
Il più utilizzato è un cosiddetto fibrinolitico, r-tPA -attivatore ricombinante del plasminogeno tissutale- e i suoi derivati di III generazione, che scioglie il coagulo e deve essere somministrato, in pazienti in assenza di segni di emorragia cerebrale, entro 4,5 ore dall’esordio dei sintomi con dose 0.9 mg/Kg di cui il 10% della dose in bolo e il restante farmaco in infusione di 60 min’, secondo le più recenti linee guida.
Il trattamento, l’unico approvato dall’FDA entro le 3-4,5 ore, è tanto più efficace quanto minore è l’intervallo di tempo tra l’esordio dei sintomi e la somministrazione del farmaco.
In casi particolari ed in centri specializzati, quando grazie alla diagnostica per immagini (RMN perfusionale), si rileva la presenza di aree del cervello minacciate dall’ischemia ma ancora vitali, pur essendo stato superato il limite delle 4,5 ore dall’esordio, la trombolisi potrà essere proposta.
La trombectomia meccanica
È l’intervento di disostruzione del vaso occluso mediante l’inserimento di un catetere nell’arteria femorale o radiale, con cui è possibile risalire sino alla zona dove è presente l’ostruzione, oltrepassarla e asportare il coagulo mediante un dispositivo chiamato “stentriever” che cattura letteralmente tra le sue maglie il coagulo, successivamente il catetere viene ritirato permettendone l’asportazione. Questa tecnica può̀ essere effettuata in casi selezionati anche oltre le 6 ore dall’esordio dell’evento avverso.
La tromboaspirazione
Questa metodica, come la trombectomia meccanica, prevede l’utilizzo di un catetere intra-arterioso la cui estremità viene posta a contatto con il trombo al fine di poterlo aspirare.
Il ruolo dell’eparina
Nel paziente ospedalizzato, con diagnosi di ictus ischemico, l’eparina viene somministrata nel corso del trattamento trombolitico poiché, promuovendo lo scioglimento del coagulo, facilita l’attività degli agenti fibrinolitici che permettono di “sciogliere” il trombo.
Ulteriormente la sua somministrazione è prevista in corso di procedure endovascolari di trombectomia e tromboaspirazione. In questi casi la somministrazione viene fatta sotto stretto controllo medico, seguendo specifici protocolli e sottoponendo i pazienti a controlli ematici seriati per il continuo monitoraggio dei parametri della coagulazione in modo da scongiurare il rischio di emorragie secondarie.
L’eparinizzazione sistemica convenzionale durante le procedure neurointerventistiche ha dimostrato benefici contro le complicanze tromboemboliche ed è di norma utilizzata, ad esempio, durante l’angioplastica intracranica transluminale percutanea e lo stenting.
Tuttavia, pochi studi hanno sottolineato il profilo di sicurezza ed efficacia dell’eparinizzazione sistemica durante la trombectomia meccanica per l’ictus ischemico acuto.
Teoricamente, l’eparinizzazione durante la trombectomia può avere effetti terapeutici aggiuntivi prevenendo la formazione di microtrombi e ripristinando la perfusione sanguigna microvascolare, ma deve essere preso sempre in considerazione il potenziale rischio di complicanze emorragiche.
Inoltre, insieme agli anticoagulanti orali come warfarin, gli inibitori del fattore Xa e IIa, trova impiego nella prevenzione secondaria dell’ictus in quei pazienti che sono già stati trattati e che presentano fattori di rischio cardioembolico come la fibrillazione atriale, poiché, interagendo con la cascata coagulativa, evita la nuova formazione di trombi.